Per una filosofia della fotografia
Libri

Per una filosofia della fotografia, un testo di Flusser profetico

Per una filosofia della fotografia un saggio del 1983

In casa editrice stiamo lavorando a un libro di Levi Strauss. Il traduttore si sta ovviamente occupando della traduzione, ma quando, (come in questo caso) il libro cita volumi già tradotti in italiano da altre case editrici, entra in gioco la redazione. Bisogna infatti inserire le citazioni dell’edizione già tradotta cercandole scrupolosamente all’interno del testo. In questo volume di Levi Strauss si parla di un saggio di Vilém Flusser che mi sono ritrovata a leggere nella sua interezza, cercando una frase dopo l’altra, e che mi ha colpita moltissimo. Si chiama Per una filosofia della fotografia e lo trovo profetico ai livelli del racconto di Calvino de Gli amori difficili di cui avevo scritto in un altro post.

Per farla in maniera molto semplice, Per una filosofia della fotografia è un saggio del 1983. In questo, Flusser apre una riflessione filosofica riguardo l’invenzione della fotografia. Sostiene che, come tutte le invenzioni dell’uomo, la macchina fotografica sia un prolungamento del nostro corpo. In particolare si tratta del prolungamento del nostro occhio. Flusser si domanda quanto effettivamente ci sia libertà per il fotografo che utilizza la macchina fotografica. Trattandosi infatti di un apparecchio meccanico, quanto è libero di esprimersi? Pur settando ISO, tempi di esposizioni, pur scegliendo l’inquadratura perfetta, è l’apparecchio a fare il lavoro: ci sono dei meccanismi che escono fuori dal nostro controllo. Ciò che ho trovato profetico ai limiti dell’inquietante è quello che scrive alla fine del libro che, più che alla macchina fotografica, mi ha fatto pensare ai nostri smartphone (che comunque hanno al loro interno una fotocamera) e al mondo dei social, fondato sulle immagini. Vediamolo.

Citazioni profetiche da Per una filosofia della fotografia

Alla luce di una tale critica della cultura, l’apparecchio fotografico si rivelerà l’avo di tutti quegli apparecchi che si apprestano a robotizzare tutti gli aspetti della nostra vita, dal gesto più esteriore fino all’aspetto più intimo del pensare, del sentire e del volere.

Non mi sembra così distante da ciò che effettivamente è accaduto. Ogni cosa di noi è ormai sui social: dal selfie, alla canzone che esprime intimamente il nostro mood. Molte conoscenze nascono su Instagram, Facebook e Tinder, direi che abbiamo robotizzato diversi aspetti della nostra vita. Andiamo al lato inquietante che spero possa portare a una riflessione.

L’intenzione che sta dietro gli apparecchi è emancipare gli uomini dal lavoro (…) per esempio, l’apparecchio fotografico emancipa l’uomo dalla necessità di manipolare un pennello.

Fin qui tutto bene, direi. La tecnologia è stata creata per rendere la vita più facile all’uomo. Ma c’è un confine sottile tra l’essere un aiuto per l’uomo e diventare un sostituto delle sue azioni o addirittura dei suoi pensieri.

Gli apparecchi sono stati inventati per funzionare automaticamente, ovvero in modo autonomo rispetto a futuri interventi umani. Questa è l’intenzione che li ha creati: disinserire l’uomo da essi. E questo intento ha avuto indubbiamente successo. Mentre l’uomo è sempre più spesso disinserito, i programmi degli apparecchi, questi testardi giochi di combinazioni, si arricchiscono sempre più di elementi; sono sempre più veloci nelle loro combinazioni, e superano la capacità dell’uomo di comprenderne le intenzioni e di controllarli. Chiunque abbia a che fare con apparecchi, ha a che fare con black box che non può comprendere. Per questo non si può nemmeno parlare di un proprietario degli apparecchi. (…) Ogni intenzione umana è presa sulla base di decisioni dell’apparecchio; essa si è ridotta a decisione puramente funzionale, ovvero: l’intenzione umana si è volatilizzata.

Prendiamo quest’ultimo punto. I social ci obbligano a postare un numero di fotografie, link, parole se vogliamo mantenere attivo il nostro profilo. Quindi lo facciamo perché abbiamo voglia di condividere quello che siamo e che facciamo, o perché per essere al passo con la società in cui viviamo dobbiamo farlo? Siamo veramente noi a decidere?

Per una filosofia della fotografia e la libertà

Qui entra in gioco il discorso della libertà. Secondo Flusser la nostra libertà è fortemente limitata dagli apparecchi. Inizialmente nati per semplificarci la vita, in seguito diventati uno strumento che ce la semplifica al punto da limitare la nostra libertà.

L’uomo crea utensili prendendo se stesso a modello di questo atto di creazione – fino a quando la situazione non si inverte e l’uomo prende il suo utensile a modello per se stesso, il mondo e la società.

Su questo punto ho desiderio si soffermarmi. Instagram inizialmente era un social che raccoglieva le foto di aspiranti fotografi. Penso di essere stata una delle prime a iscrivermi in Italia. Con il tempo è cambiato, diventando una vetrina, un palcoscenico della perfezione. Tutti dobbiamo apparire belli e perfetti. Il canone di bellezza “Instagram” è entrato così tanto nella mente delle persone da creare danni psicologici e disturbi alimentari alle ragazzine, che in età adolescenziale sono bombardate da immagini finte di donne perfette. Ma non solo, riguardo la frase di Flusser appena presa in esame, la situazione si è davvero invertita. Non so se avete letto di persone che si sono sottoposte a interventi chirurgici per apparire come sembrano con un determinato filtro su Instagram. Io sì, purtroppo.

L’ipotesi sopra proposta, secondo cui stiamo cominciando a pensare in base a categorie fotografiche, sostiene che le strutture fondamentali della nostra esistenza si trasformano. Non si tratta del classico problema dell’alienazione, ma di una rivoluzione esistenziale, per la quale non possediamo alcun esempio.

Era il 1983, eppure Flusser ci aveva visto lungo sul potere che poteva avere sulle nostre vite un apparecchio fotografico. Oggi ne possediamo tutti uno all’interno dei nostri smartphone. E i social ci impongono o no, come dice Flusser, a pensare in base a categorie fotografiche? La parola “instagrammabile” applicata a un locale, un vestito, a tutto, vi dice qualcosa?

I loro gesti sono programmati dall’apparecchio fotografico, essi giocano con i simboli (…) creano cose prive di valore. E ciò nonostante ritengono che la loro attività sia tutt’altro che assurda e credono di agire liberamente.

Qui ho avuto i brividi. Ma voglio essere chiara: sono la prima ad avere più di mille foto su Instagram e non sono qui a fare la morale a nessuno. Vorrei solo che questo saggio facesse riflettere ognuno di noi. A me è piaciuto molto e ci scrivo un post per consigliarlo. Ho trovato Flusser lungimirante sugli effetti devastanti che può avere la fotografia, se utilizzata nel modo sbagliato. Vi lascio quindi con la sua conclusione che definisce la sua riflessione, e dunque la sua filosofia della fotografia:

necessaria, poiché è l’unica forma di rivoluzione che ci sia ancora concessa.

Siate rivoluzionari, leggete, fatevi un’opinione, riflettete.

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