Edizioni degne di nota, Libri, Pensieri, Scrittori

Tornare in Sicilia, per me e per Vittorini

Viaggio di ritorno su una locomotiva di parole

Sono tornata in Sicilia, portandomi dietro 49 vinili e talmente tanti libri che stiamo buttando via una scarpiera per fare posto a una nuova libreria. La situazione è abbastanza complicata e noiosa da spiegare ma capirete bene quanto sia difficile tornare a vivere qui dai miei, dopo quasi sei anni di solitudine e amata indipendenza. Una stanza tutta per me era un post che avevo scritto qualche mese fa, sulla scia della recente lettura della Woolf e che spiegava quanto fosse importante per me la mia autonomia. Chi ha letto altri miei post sa bene, oltre al mio avere come migliore amica la solitudine, quanto io sia una fan della teoria che i libri non arrivino mai per caso. Sanno esattamente qual è il loro momento, e si fanno avanti nel preciso istante in cui abbiamo bisogno di loro. 

Proprio per questo motivo, tornata a casa e totalmente smarrita e confusa per questo cambio repentino di vita, il primo libro che ho estratto dalla magica libreria di mio padre (assolutamente il primo) è stato Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Un’edizione stupenda della BUR, che con i suoi toni del verde acido e del giallo limone ha intrappolato il mio sguardo e ha costretto le mie mani a sfogliarla. Al suo interno, le illustrazioni di Renato Guttuso riempivano i miei occhi, e sentivo già quella scintilla che si accende nel lettore quando prende consapevolezza di avere tra le mani il libro giusto al momento giusto.

Questa sensazione è diventata sempre più definita quando ho cominciato a leggere le prime righe riuscendo a dare dei termini più adatti al mio senso di smarrimento e confusione. Ero agitato da astratti furori. La prima pagina e mezza parlava senza dubbio di me. Un’occhiata veloce alla trama. “Silvestro in preda alla cupa disperazione, parte da Milano per tornare in Sicilia. (…) Il viaggio sarà l’occasione per attraversare una galleria onirica di personaggi e situazioni allegoriche, per decifrare il ritorno alle origini come premessa di una possibile riscossa collettiva“. Decisamente mio.

Il viaggio. Di solito il mio viaggio è lunghissimo, perché ho sempre con me, oltre la valigia, un pappagallo giallo al quale è vietato accedere in aereo. Questo da quando c’è stata la famosa aviaria (sì, siamo rimasti nel 2000). Il viaggio in treno è stancante ma ricco di storie e immagini. Il finestrino è un film che esibisce fieramente l’Italia intera, e nel corridoio si sentono i racconti delle vite degli altri, così distanti dalla mia. Ci sono in qualche modo affezionata. Quando scendo in Sicilia, la mattina dopo mi sveglio vedendo il mare dopo mesi di astinenza. Quando salgo a Milano, invece, mi capita di svegliarmi con la neve.

Quest’ultimo viaggio però è stato diverso. Sono scesa in auto con i miei, riempiendo delle cose accumulate in sei anni un’auto chiocciola guidata da un papà che fa ancora su e giù per chilometri, fingendo di non avere 67 anni. Sono grata di tutto questo ovviamente. Eppure, ammetto di aver pensato che a Natale, l’ultima volta che ho viaggiato in treno, non avevo idea che fosse l’ultima volta. Forse sarei stata più attenta a immortalare i paesaggi e a conservarli nella memoria, forse avrei origliato più conversazioni invece di chiudermi nel vagone letto a leggere Un amore di Buzzati. Bugia, questo non lo avrei fatto. Ho sentito di non aver fatto il mio ultimo viaggio in treno consapevole. Eppure, vi dirò, me lo ha regalato Vittorini in questo magico libro. Nelle sue parole appropriate, azzeccate, calzanti è descritto il mio ultimo viaggio di ritorno che non ho fatto in treno.

Ero in viaggio, e a Firenze, verso mezzanotte, cambiai treno, verso le sei del mattino dopo cambiai un’altra volta, a Roma Termini, e verso mezzogiorno giunsi a Napoli, dove non pioveva e spedii un vaglia telegrafico di lire cinquanta a mia moglie. (…) Poi viaggiai nel treno per le Calabrie, ricominciò a piovere, a esser notte e riconobbi il viaggio, me bambino nelle mie dieci fughe da casa e dalla Sicilia, in viaggio avanti e indietro per quel paese di fumo e di gallerie, e fischi inenarrabili di treno fermo, nella notte, in bocca a un monte, dinanzi al mare, a nomi da sogni antichi, Amantèa, Maratèa, Gioia Tauro. (…) Mi addormentai, mi risvegliai, tornai ad addormentarmi, a risvegliarmi, infine fui a bordo del battello-traghetto per la Sicilia. Il mare era nero, invernale, e in piedi sull’alto ponte, quell’altipiano, mi riconobbi di nuovo ragazzo prendere il vento, divorare il mare verso l’una o l’altra delle due coste con quelle macerie, nel mattino piovoso, città, paesi, ammucchiati ai piedi. Faceva freddo e mi riconobbi ragazzo, avere freddo eppur restare ostinato sull’alta piattaforma nel vento, a picco sulla costa e sul mare.

Il viaggio proseguiva ancora. Ma se Vittorini descrive l’intero viaggio da Milano allo Stretto in una paginetta scarsa, il percorso per arrivare al suo paese natale viene descritto in una ventina di pagine. Ironia della sorte: anche per me sembra un viaggio rapidissimo quello sul treno che attraversa l’intera Italia la notte. Quando poi si giunge in Sicilia, però, sembra improvvisamente rallentare e non arrivare mai a destinazione.

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Pensieri

La teoria del cactus

Quello che vedete in foto sarà il centesimo cactus che mi muore. Voi direte: “Ma come fai a uccidere i cactus?” Giuro, non me la cavo malissimo con le piante, anzi, oserei dire che sono bravina. Ma i miei cactus muoiono tutti di troppo amore. Praticamente gli do troppa acqua, convinta, a mio modo, di fare loro del bene.

Ci scherzo sempre su, perché le mie relazioni finiscono quasi sempre allo stesso modo, do tanto ma non va mai bene. La cosa assurda è che continuo a comprare cactus anche se mi muoiono, continuo a dare tanto anche se non ne vale la pena.

la teoria del cactus

Questo fenomeno in cui più do e più distruggo, che si tratti di piante o di relazioni, l’ho chiamato La teoria del cactus. Si tratta di una sorta di legge per cui più dai e meno ricevi, più tieni a qualcosa e più la perdi. Sicuramente non sono l’unica a soffrirne, probabilmente esisterà qualcun altro che dedica anima e corpo a qualcosa/qualcuno che non lo desidera.

Un mio amico, quando questa estate gli ho esposto la mia teoria del cactus, mi ha detto: “Secondo me non devi cambiare tu il modo in cui ti prendi cura delle piante. Non devi neanche smettere di comprare piante perché ti muoiono i cactus. Devi solo cambiare tipo di pianta. Trovare una pianta che con tutte le tue attenzioni cresca rigogliosa, invece di morire. È evidente che i cactus non fanno per te.”

Bene. Qui oggi mi faccio una promessa. Niente più cactus, non siamo compatibili. Comprerò delle ninfee da affogare in un mix di acqua e attenzioni, per non sbagliare.

Se anche voi avete un problema con le piante che non vi apprezzano abbastanza vi consiglio le piante scortesi del mio amico Johnny. Almeno queste nella loro scortesia risultano simpatiche!

la teoria del cactus

Ps: ma quanto è bella la mia tastiera che imita la macchina da scrivere? Ammetto che il colore non è dei miei preferiti ma ahimè, era disponibile in breve tempo solo questo, e scrivo così tanto ultimamente che la tastiera del mio pc aveva bisogno di essere lasciata un po’ in pace. Vi lascio il link!

Libri, Pensieri

Il 2 novembre, il giorno dei morti

In autunno, soprattutto nel periodo che gravita intorno ad Halloween, adoro leggere romanzi gotici e racconti dell’orrore. Di solito fagocito i racconti di Poe e Lovecraft ma quest’anno volevo un Halloween al femminile e ho scelto Lizzie di Shirley Jackson (come avete visto nel mio precedente post sui libri della biblioteca) e Frankenstein di Mary Shelley. In verità, ho cominciato pure Piccole Donne perché è un periodo già abbastanza angosciante senza libri che mettono paura e, quella della Alcott, è una lettura che mi mette una serenità unica. Una camomilla di carta e inchiostro! Ma adesso torniamo a parlare di morte.

“Stringiamoci più stretti a ciò che ci rimane e spostiamo il nostro amore per coloro che abbiamo perduto, su quelli che ancora sono vivi.”

Scrive Mary Shelley in Frankenstein. Ed effettivamente nel romanzo leggiamo delle vicende di Victor che vuole a tutti i costi avere il potere di far rivivere i morti e, utilizzando dei cadaveri, restituisce la vita a un essere nuovo. Una creatura che però crea problemi molto rilevanti intorno a sé e allo stesso Victor. Sarebbe forse meglio rassegnarsi alla morte e all’impossibilità di un ritorno da essa?

Eppure, c’è un luogo in cui i morti ritornano ma portando con loro non disgrazie ma gioia. Dove? In Sicilia! Infatti, oggi è un giorno festivo sul calendario di noi isolani. Il 2 novembre è per noi la festa dei morti! Che cosa? Si tratta di una ricorrenza per celebrare i parenti defunti. Sembra una cosa inquietante, lo so. Invece è un periodo dell’anno che ho sempre amato moltissimo! La tradizione vuole che nella notte tra l’1 e il 2 novembre i defunti facciano visita ai loro cari, lasciando dei doni per i più piccoli, nascondendoli in casa. Quando ero una bambina, quindi, mi svegliavo con la consapevolezza di avere un nuovo giocattolo da scovare da qualche parte! Era un Natale in anticipo ma, invece di un estraneo con la barba bianca, era la mia dolce nonna, nella mia mente di bimba, a portarmi i regali. Un po’ come in Coco, il film di animazione Disney. Anche lì si celebra il dia de los muerto, una festa messicana che dura un po’ più a lungo della nostra ma che prevede il ritorno a casa dei defunti proprio il 2 novembre. Anche nel cartone animato si tratta di un momento di gioia, caratterizzato da colori e costumi allegri.

In Sicilia ci sono anche dei dolci tipici per celebrare la festa. Dalle mie parti si sfornano dei biscotti che si chiamano ossa dei morti, per la loro consistenza capace di far saltare i denti migliori e dei deliziosi biscotti al cioccolato che si chiamano rame di Napoli (ma sto ancora cercando di capire il perché, considerato che le mie numerose amicizie campane non li hanno mai visti).

Dopo aver scartato i regali ed essersi rimpinzati di dolci si va a fare visita alle tombe dei parenti. Mia madre è originaria di un paese distante all’incirca un’oretta dal luogo in cui abitiamo e, quindi, recarsi al cimitero era una vera e propria gita, nonché un momento di raccoglimento per tutta la famiglia (la mia è bella numerosa). Ancora oggi i cimiteri mi rendono quieta invece di farmi paura, e, non a caso, il Monumentale di Milano (di cui ho inserito le foto nel post) è uno dei miei posti preferiti della città che mi ha adottata.