Edizioni degne di nota, Libri, Scrittori

Il pettirosso del giardino segreto esisteva davvero

Sono sparita per quasi un anno e ne sono consapevole. Se con la lettura la cosa è stata più lieve, ammetto che lavorare ogni giorno con la scrittura è riuscito a scrollarmi di dosso molta della voglia che avevo di scrivere “per piacere”. Non voglio annoiarvi con i mille cambiamenti che ha subìto la mia vita in un anno e quindi sarò breve: sono felice. Vivo in un monolocale vicino al mare (riesco anche a vederne un piccolo rettangolo dal mio balconcino fiorito); sono ufficialmente un’editor freelance che ha le sue soddisfazioni, ma collaboro stabilmente con una piccola casa editrice che ha un debole per il mare come me; amo e sono amata; scrivo cose creative che però mi tengono per lungo tempo lontana da qui. Ma adesso parliamo di libri, che questo blog è nato in primo luogo per i miei amori editoriali, non dimentichiamolo.

Ho letto Il giardino segreto parecchio in ritardo. Si tratta di un romanzo per ragazzi che in molti leggono da bambini, o gli viene letto dai genitori. Casa mia straripa di libri ma probabilmente questo manca o non ha mai attirato la mia attenzione da bambina. Lo ha fatto però in un momento in cui mi sentivo molto piccola e cioè nel 2020, quando probabilmente tutti ci siamo sentiti più indifesi, più vulnerabili, più bambini. In quel periodo la mia voglia di rivedere la mia famiglia, casa mia (e il giardino di casa mia) era fortissima. Come molti, sentirmi in trappola, inscatolata in una stanza singola al primo piano di un appartamento milanese mi stava facendo impazzire. In più a primavera, la mia stagione preferita! Il mio letto è stato letteralmente circondato di piante (ben quindici), io stessa mi sono trasformata in pianta, con un bisogno psicofisico di mettermi al sole dalle due alle tre ore al giorno. In quel momento è arriva la mia copia de Il giardino segreto, un giardino in formato tascabile, un prato schizzato di macchie di colore in cui potevo andare senza violare il DPCM del momento.

La mia lettura già fertile di immagini mentali brillanti è stata arricchita dalle illustrazione di una delle edizioni magiche di Ippocampo in collaborazione con MinaLima, di cui vi avevo già parlato. Ma perché ve lo sto raccontando adesso che sono libera di vagare in giardini percepibili sotto i piedi e alle narici? Perché ho scoperto una piccola casa editrice di cui mi sono innamorata e voglio parlare con voi di un suo libro.

La casa editrice è la Caravaggio Editore e come potrei non amarla già solo per il nome? Ha una collana che si chiama Classici ritrovati, e una signorina dell’Ottocento come me capitola per forza davanti a un nome che richiama l’arte e a dei classici che ancora deve scoprire. Il libro di cui vi parlo oggi però è della collana Frammenti d’autore e si chiama Il mio pettirosso. Si tratta di un racconto dell’autrice de Il giardino segreto, Frances Hodgson Burnett. Il libro è un piccolo gioiellino editoriale. La copertina è meravigliosa, il frontespizio decorato a motivi fitomorfi, la carta delle pagine abbastanza spessa e ruvida al tatto e ogni piè di pagina è finemente ornato.

Forse non lo sapete, o forse ci siete già arrivati da soli visto che ci ha scritto un intero libro, ma la Burnett amava molto le piante e i giardini. Ovunque andasse dedicava anima e corpo al giardinaggio e a un certo punto della sua vita ha piantato ben 762 cespugli di rose, la sua pianta preferita in assoluto. Il ritrovamento di un’antica chiave che dava accesso a un giardino bellissimo, come narrato nel suo celebre romanzo, è avvenuto davvero nella sua residenza a Great Mytham Hall e il pettirosso citato ne Il giardino segreto è esistito veramente. L’autrice ha fatto la sua conoscenza mentre scriveva e tra i due si è creato un fortissimo legame. Il pettirosso le veniva vicino mentre lavorava e trascorrevano insieme intere giornate. L’autrice si era legata talmente tanto al piccolo esserino alato che era convinta che si appartenessero e nel racconto lo definisce a tutti gli effetti “una persona”.

Sarà che amo gli animali, sarà che amo i giardini, o sarà che vivo con un pappagallino che mi mangiucchia i fogli su cui scrivo e che di rosso ha le guance. Sarà che anche io lo considero “una persona”, un componente della mia famiglia. Ma questo breve racconto di appena 55 pagine mi ha commossa come pochi libri sono riusciti ultimamente a fare. Per questo, per tornare a parlarvi di libri ho deciso di raccontarvi di questa recente scoperta, di questo piccolo frammento di intimità di Frances Hodgson Burnett che sento anche un po’ mia.

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Tornare in Sicilia, per me e per Vittorini

Viaggio di ritorno su una locomotiva di parole

Sono tornata in Sicilia, portandomi dietro 49 vinili e talmente tanti libri che stiamo buttando via una scarpiera per fare posto a una nuova libreria. La situazione è abbastanza complicata e noiosa da spiegare ma capirete bene quanto sia difficile tornare a vivere qui dai miei, dopo quasi sei anni di solitudine e amata indipendenza. Una stanza tutta per me era un post che avevo scritto qualche mese fa, sulla scia della recente lettura della Woolf e che spiegava quanto fosse importante per me la mia autonomia. Chi ha letto altri miei post sa bene, oltre al mio avere come migliore amica la solitudine, quanto io sia una fan della teoria che i libri non arrivino mai per caso. Sanno esattamente qual è il loro momento, e si fanno avanti nel preciso istante in cui abbiamo bisogno di loro. 

Proprio per questo motivo, tornata a casa e totalmente smarrita e confusa per questo cambio repentino di vita, il primo libro che ho estratto dalla magica libreria di mio padre (assolutamente il primo) è stato Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Un’edizione stupenda della BUR, che con i suoi toni del verde acido e del giallo limone ha intrappolato il mio sguardo e ha costretto le mie mani a sfogliarla. Al suo interno, le illustrazioni di Renato Guttuso riempivano i miei occhi, e sentivo già quella scintilla che si accende nel lettore quando prende consapevolezza di avere tra le mani il libro giusto al momento giusto.

Questa sensazione è diventata sempre più definita quando ho cominciato a leggere le prime righe riuscendo a dare dei termini più adatti al mio senso di smarrimento e confusione. Ero agitato da astratti furori. La prima pagina e mezza parlava senza dubbio di me. Un’occhiata veloce alla trama. “Silvestro in preda alla cupa disperazione, parte da Milano per tornare in Sicilia. (…) Il viaggio sarà l’occasione per attraversare una galleria onirica di personaggi e situazioni allegoriche, per decifrare il ritorno alle origini come premessa di una possibile riscossa collettiva“. Decisamente mio.

Il viaggio. Di solito il mio viaggio è lunghissimo, perché ho sempre con me, oltre la valigia, un pappagallo giallo al quale è vietato accedere in aereo. Questo da quando c’è stata la famosa aviaria (sì, siamo rimasti nel 2000). Il viaggio in treno è stancante ma ricco di storie e immagini. Il finestrino è un film che esibisce fieramente l’Italia intera, e nel corridoio si sentono i racconti delle vite degli altri, così distanti dalla mia. Ci sono in qualche modo affezionata. Quando scendo in Sicilia, la mattina dopo mi sveglio vedendo il mare dopo mesi di astinenza. Quando salgo a Milano, invece, mi capita di svegliarmi con la neve.

Quest’ultimo viaggio però è stato diverso. Sono scesa in auto con i miei, riempiendo delle cose accumulate in sei anni un’auto chiocciola guidata da un papà che fa ancora su e giù per chilometri, fingendo di non avere 67 anni. Sono grata di tutto questo ovviamente. Eppure, ammetto di aver pensato che a Natale, l’ultima volta che ho viaggiato in treno, non avevo idea che fosse l’ultima volta. Forse sarei stata più attenta a immortalare i paesaggi e a conservarli nella memoria, forse avrei origliato più conversazioni invece di chiudermi nel vagone letto a leggere Un amore di Buzzati. Bugia, questo non lo avrei fatto. Ho sentito di non aver fatto il mio ultimo viaggio in treno consapevole. Eppure, vi dirò, me lo ha regalato Vittorini in questo magico libro. Nelle sue parole appropriate, azzeccate, calzanti è descritto il mio ultimo viaggio di ritorno che non ho fatto in treno.

Ero in viaggio, e a Firenze, verso mezzanotte, cambiai treno, verso le sei del mattino dopo cambiai un’altra volta, a Roma Termini, e verso mezzogiorno giunsi a Napoli, dove non pioveva e spedii un vaglia telegrafico di lire cinquanta a mia moglie. (…) Poi viaggiai nel treno per le Calabrie, ricominciò a piovere, a esser notte e riconobbi il viaggio, me bambino nelle mie dieci fughe da casa e dalla Sicilia, in viaggio avanti e indietro per quel paese di fumo e di gallerie, e fischi inenarrabili di treno fermo, nella notte, in bocca a un monte, dinanzi al mare, a nomi da sogni antichi, Amantèa, Maratèa, Gioia Tauro. (…) Mi addormentai, mi risvegliai, tornai ad addormentarmi, a risvegliarmi, infine fui a bordo del battello-traghetto per la Sicilia. Il mare era nero, invernale, e in piedi sull’alto ponte, quell’altipiano, mi riconobbi di nuovo ragazzo prendere il vento, divorare il mare verso l’una o l’altra delle due coste con quelle macerie, nel mattino piovoso, città, paesi, ammucchiati ai piedi. Faceva freddo e mi riconobbi ragazzo, avere freddo eppur restare ostinato sull’alta piattaforma nel vento, a picco sulla costa e sul mare.

Il viaggio proseguiva ancora. Ma se Vittorini descrive l’intero viaggio da Milano allo Stretto in una paginetta scarsa, il percorso per arrivare al suo paese natale viene descritto in una ventina di pagine. Ironia della sorte: anche per me sembra un viaggio rapidissimo quello sul treno che attraversa l’intera Italia la notte. Quando poi si giunge in Sicilia, però, sembra improvvisamente rallentare e non arrivare mai a destinazione.

Per una filosofia della fotografia
Libri

Per una filosofia della fotografia, un testo di Flusser profetico

Per una filosofia della fotografia un saggio del 1983

In casa editrice stiamo lavorando a un libro di Levi Strauss. Il traduttore si sta ovviamente occupando della traduzione, ma quando, (come in questo caso) il libro cita volumi già tradotti in italiano da altre case editrici, entra in gioco la redazione. Bisogna infatti inserire le citazioni dell’edizione già tradotta cercandole scrupolosamente all’interno del testo. In questo volume di Levi Strauss si parla di un saggio di Vilém Flusser che mi sono ritrovata a leggere nella sua interezza, cercando una frase dopo l’altra, e che mi ha colpita moltissimo. Si chiama Per una filosofia della fotografia e lo trovo profetico ai livelli del racconto di Calvino de Gli amori difficili di cui avevo scritto in un altro post.

Per farla in maniera molto semplice, Per una filosofia della fotografia è un saggio del 1983. In questo, Flusser apre una riflessione filosofica riguardo l’invenzione della fotografia. Sostiene che, come tutte le invenzioni dell’uomo, la macchina fotografica sia un prolungamento del nostro corpo. In particolare si tratta del prolungamento del nostro occhio. Flusser si domanda quanto effettivamente ci sia libertà per il fotografo che utilizza la macchina fotografica. Trattandosi infatti di un apparecchio meccanico, quanto è libero di esprimersi? Pur settando ISO, tempi di esposizioni, pur scegliendo l’inquadratura perfetta, è l’apparecchio a fare il lavoro: ci sono dei meccanismi che escono fuori dal nostro controllo. Ciò che ho trovato profetico ai limiti dell’inquietante è quello che scrive alla fine del libro che, più che alla macchina fotografica, mi ha fatto pensare ai nostri smartphone (che comunque hanno al loro interno una fotocamera) e al mondo dei social, fondato sulle immagini. Vediamolo.

Citazioni profetiche da Per una filosofia della fotografia

Alla luce di una tale critica della cultura, l’apparecchio fotografico si rivelerà l’avo di tutti quegli apparecchi che si apprestano a robotizzare tutti gli aspetti della nostra vita, dal gesto più esteriore fino all’aspetto più intimo del pensare, del sentire e del volere.

Non mi sembra così distante da ciò che effettivamente è accaduto. Ogni cosa di noi è ormai sui social: dal selfie, alla canzone che esprime intimamente il nostro mood. Molte conoscenze nascono su Instagram, Facebook e Tinder, direi che abbiamo robotizzato diversi aspetti della nostra vita. Andiamo al lato inquietante che spero possa portare a una riflessione.

L’intenzione che sta dietro gli apparecchi è emancipare gli uomini dal lavoro (…) per esempio, l’apparecchio fotografico emancipa l’uomo dalla necessità di manipolare un pennello.

Fin qui tutto bene, direi. La tecnologia è stata creata per rendere la vita più facile all’uomo. Ma c’è un confine sottile tra l’essere un aiuto per l’uomo e diventare un sostituto delle sue azioni o addirittura dei suoi pensieri.

Gli apparecchi sono stati inventati per funzionare automaticamente, ovvero in modo autonomo rispetto a futuri interventi umani. Questa è l’intenzione che li ha creati: disinserire l’uomo da essi. E questo intento ha avuto indubbiamente successo. Mentre l’uomo è sempre più spesso disinserito, i programmi degli apparecchi, questi testardi giochi di combinazioni, si arricchiscono sempre più di elementi; sono sempre più veloci nelle loro combinazioni, e superano la capacità dell’uomo di comprenderne le intenzioni e di controllarli. Chiunque abbia a che fare con apparecchi, ha a che fare con black box che non può comprendere. Per questo non si può nemmeno parlare di un proprietario degli apparecchi. (…) Ogni intenzione umana è presa sulla base di decisioni dell’apparecchio; essa si è ridotta a decisione puramente funzionale, ovvero: l’intenzione umana si è volatilizzata.

Prendiamo quest’ultimo punto. I social ci obbligano a postare un numero di fotografie, link, parole se vogliamo mantenere attivo il nostro profilo. Quindi lo facciamo perché abbiamo voglia di condividere quello che siamo e che facciamo, o perché per essere al passo con la società in cui viviamo dobbiamo farlo? Siamo veramente noi a decidere?

Per una filosofia della fotografia e la libertà

Qui entra in gioco il discorso della libertà. Secondo Flusser la nostra libertà è fortemente limitata dagli apparecchi. Inizialmente nati per semplificarci la vita, in seguito diventati uno strumento che ce la semplifica al punto da limitare la nostra libertà.

L’uomo crea utensili prendendo se stesso a modello di questo atto di creazione – fino a quando la situazione non si inverte e l’uomo prende il suo utensile a modello per se stesso, il mondo e la società.

Su questo punto ho desiderio si soffermarmi. Instagram inizialmente era un social che raccoglieva le foto di aspiranti fotografi. Penso di essere stata una delle prime a iscrivermi in Italia. Con il tempo è cambiato, diventando una vetrina, un palcoscenico della perfezione. Tutti dobbiamo apparire belli e perfetti. Il canone di bellezza “Instagram” è entrato così tanto nella mente delle persone da creare danni psicologici e disturbi alimentari alle ragazzine, che in età adolescenziale sono bombardate da immagini finte di donne perfette. Ma non solo, riguardo la frase di Flusser appena presa in esame, la situazione si è davvero invertita. Non so se avete letto di persone che si sono sottoposte a interventi chirurgici per apparire come sembrano con un determinato filtro su Instagram. Io sì, purtroppo.

L’ipotesi sopra proposta, secondo cui stiamo cominciando a pensare in base a categorie fotografiche, sostiene che le strutture fondamentali della nostra esistenza si trasformano. Non si tratta del classico problema dell’alienazione, ma di una rivoluzione esistenziale, per la quale non possediamo alcun esempio.

Era il 1983, eppure Flusser ci aveva visto lungo sul potere che poteva avere sulle nostre vite un apparecchio fotografico. Oggi ne possediamo tutti uno all’interno dei nostri smartphone. E i social ci impongono o no, come dice Flusser, a pensare in base a categorie fotografiche? La parola “instagrammabile” applicata a un locale, un vestito, a tutto, vi dice qualcosa?

I loro gesti sono programmati dall’apparecchio fotografico, essi giocano con i simboli (…) creano cose prive di valore. E ciò nonostante ritengono che la loro attività sia tutt’altro che assurda e credono di agire liberamente.

Qui ho avuto i brividi. Ma voglio essere chiara: sono la prima ad avere più di mille foto su Instagram e non sono qui a fare la morale a nessuno. Vorrei solo che questo saggio facesse riflettere ognuno di noi. A me è piaciuto molto e ci scrivo un post per consigliarlo. Ho trovato Flusser lungimirante sugli effetti devastanti che può avere la fotografia, se utilizzata nel modo sbagliato. Vi lascio quindi con la sua conclusione che definisce la sua riflessione, e dunque la sua filosofia della fotografia:

necessaria, poiché è l’unica forma di rivoluzione che ci sia ancora concessa.

Siate rivoluzionari, leggete, fatevi un’opinione, riflettete.

Libri

Cose che ogni book lover vorrebbe (togliendo i libri)

Il mese di gennaio 2020 non è segnato nel mio calendario da nessun articolo. Anche febbraio sta finendo e io mi ero detta che almeno una volta al mese avrei scritto qui sul blog. Che volete farci? I buoni propositi nascono per essere infranti. Purtroppo dovevo dedicarmi un po’ alla tesi del master, la scadenza si avvicina pericolosamente. E con lo stage che mi impegna tutti i giorni, riuscire anche a ritagliarmi un momento per la scrittura personale diventa difficile. Ho cominciato anche a lavorare come copywriter, e quindi sto tutto il giorno a battere le dita sulla tastiera del pc, non riesco proprio a farmi venire voglia e idee per un post a fine giornata. Ma ho già in mente un modo per farmi perdonare. Tra pochi giorni sarà il mio compleanno e, in ordine, in questi casi si pensa: alla compagnia (scarsa visto che è il secondo compleanno-covid), al cibo e ai regali. Ecco, ho preparato una mini lista di cose che ogni book lover vorrebbe (togliendo i libri)! Ma nessuno prenda spunto per me, sono tutte cose che già ho (tranne una che è in programma tra gli acquisti). Pronti a maledirmi, amanti dei libri?

La luce da lettura: che sia a forma di abat jour, o un segnalibro con una lastra trasparente che riesce a illuminare la pagina che state leggendo, farà felice ogni book lover che si rispetti, soprattutto gli insonni.

La tazza book lover: la mia tazza preferita con la definizione di me medesima (e pure la vostra, immagino). Meglio ancora se accompagnata dallo scalda tazza della stessa linea Legami che, attaccandolo a una porta USB, terrà al caldo il vostro tè, caffè, quello che è.

Il fermalibro: no, non ho detto segnalibro. Sto parlando di un aggeggio a forma circolare che poggia su una base. Si può trovare a pochi centesimi in plastica o a qualche euro in più in materiali più pregiati come il legno o il metallo. Serve a tenere aperte entrambe le pagine del libro con una sola mano, infilandoci dentro il pollicione.

Due libri dell’Universale Economica Feltrinelli con la coperta del lettore: io amo questa iniziativa di Feltrinelli. Non perdo mai occasione per regalarmi due libri, e ricevere così in omaggio il plaid con la stampa di una delle tre copertine scelte dall’editore.

L’agenda tascabile per maniaci dei libri: siamo ancora a febbraio, siete in tempo per regalare un’agenda. Quella per maniaci dei libri di Edizioni Clichy è stupenda. Dal colore della copertina, agli interni dedicati agli autori, è letteralmente perfetta. Io l’ho ricevuta per Natale e ne sono stata super felice! Ogni book lover la desidererà ardentemente dopo averla vista.

Un segnalibro particolare: io letteralmente adoro quelli di mybookmark In particolare quelli di Darth Vader e C3-PO perché ho sviluppato un’ossessione per Star Wars. Ma per le ragazze più romantiche ci sono un sacco di soggetti con altri personaggi di film e libri. La caratteristica principale è qualche parte del corpo (che rende riconoscibile il personaggio) che esce dal libro. Dategli un’occhiata!

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Una borsa a forma del libro preferito del book lover: ne ho comprata una da Well Read. Nessun libro viene maltrattato come in altri casi in cui si utilizza la vera copertina del libro, svuotandola del suo contenuto. La borsa è costruita come vengono realizzate le copertine e sono disponibili diversi soggetti classici. La mia di Piccole Donne è senza dubbio la mia borsa preferita.

Libri

Libri da regalare per Natale

Non sai ancora che pesci pigliare con i fatidici doni ad amici e parenti? Guarda che è il 19 dicembre, devi darti una mossa! Ecco una lista di libri da regalare per Natale in base alla personalità e ai gusti di ognuno di loro. Perché forse sarà un Natale diverso dal solito ma l’unica cosa che possiamo fare è affrontarlo con ironia e leggerezza. Poi, non so a voi, ma a me piace da morire fare regali e ancora di più regalare (e ricevere) libri. Sono doni che costano poco e che, se scelti con cura, valgono tantissimo agli occhi di chi li riceve. Ma bando alle ciance, come dicevo siete già in ritardo.

Il fratello che si è laureato in medicina proprio in quest’anno assurdo: Il dottor Semmelweis, edito da Adelphi è un libro che racconta del primo medico che nell’Ottocento ha compreso l’importanza di lavarsi le mani e disinfettare ogni cosa (suona a tutti familiare quest’anno, vero?). Inoltre, si tratta della tesi di laurea in medicina di nientepopodimeno che Céline! Insomma, non può assolutamente mancare nella libreria di un medico del 2020.

La mamma che “quando ero ragazza io”: Finché il caffè è caldo è un libro in perfetto stile giapponese che racconta la storia di una caffetteria magica in cui è possibile tornare indietro nel tempo. Rispettando delle regole precise ovviamente e, che ve lo dico a fare, non lasciando che il caffè si raffreddi.

La sorella fanatica di Harry Potter: Se non potete regalarle una bacchetta vera portandola da Olivander potete comunque farla felice con la nuovissima edizione di Harry Potter e la pietra filosofale illustrata da MinaLima. Se vuole la comodità della lettura in italiano, nel nostro paese il libro è edito da Salani. Se invece è una fan della vecchia traduzione come me e ha già la sua copia in italiano, preferirà probabilmente la versione in lingua originale che potrete trovare nel sito dei designer o, più semplicemente, su Amazon.

Il papà che ha fatto il classico e recita ancora a memoria l’incipit di Iliade e Odissea: Madeline Miller, insegnante di greco e latino, e la sua Circe terranno a bada la nostalgia dei vostri papà per i bei tempi andati del liceo. Questo libro approfondisce uno dei personaggi più odiati e incompresi dei miti classici con abilità e sapienza, facendoci cambiare per un po’ prospettiva e forse anche idea su questa misteriosa maga.

La cugina che ha letto tutto Dostoevskij e sta per finire anche i Tolstoij a disposizione: Lo so, lo so, crisi. I nostri scrittori russi defunti non possono di certo sfornare nuovi best seller e quindi qual è la soluzione? Se ha già divorato anche tutto Gogol’ consiglio vivamente Sergej Ščukin. Un collezionista visionario nella Russia degli zar di Natalia Semënova e André Delocque, edito da Johan & Levi. Si tratta della storia di un collezionista di arte moderna russo, la cui vita non ha nulla da invidiare ai personaggi dei romanzi ottocenteschi in quanto a colpi di scena e drammi familiari. Se poi la cugina è anche appassionata d’arte l’avrete conquistata.

Il ragazzo a cui non hai mai dichiarato i tuoi sentimenti (e che non sa neanche che esisti): So quanto sia difficile parlare di ciò che si prova ma è importantissimo farlo. Se facendolo rischiamo di essere rifiutati, non provandoci affatto il due di picche è assicurato e prima o poi ci toccherà vedere la persona che amiamo mano nella mano con qualcun altro, domandandoci se poteva andare diversamente. Se proprio non riuscite a dirglielo, fateglielo leggere in una storia breve che ho trovato molto emozionante. Lettera da una sconosciuta di Stephan Zweig, edito da Adelphi.

Il migliore amico fissato con i viaggi: quest’anno gli è andata male, poverino. Ma a te non troppo! Con pochi euro puoi comunque regalare un viaggio al tuo amico, in perfetta sicurezza e a bordo del mezzo più comodo del mondo (il letto). Con Atlante leggendario delle strade d’Islanda edito da Iperborea, mappa alla mano e una leggenda per ogni luogo di questa isola incantata. Per viaggiare con la fantasia e progettare nei minimi dettagli un itinerario vero per un futuro non troppo lontano, ci auguriamo.

I consigli possono essere infiniti, come gli amici e i parenti che ci stanno accanto. E quindi, oltre alla mia lista, vi lascio quella simpaticissima di una delle mie librerie preferite di Milano, Gogol & Co., che mi ha dato l’ispirazione per questo post.

E tu quale libro vorresti ricevere per Natale?

Libri, Pensieri

Il 2 novembre, il giorno dei morti

In autunno, soprattutto nel periodo che gravita intorno ad Halloween, adoro leggere romanzi gotici e racconti dell’orrore. Di solito fagocito i racconti di Poe e Lovecraft ma quest’anno volevo un Halloween al femminile e ho scelto Lizzie di Shirley Jackson (come avete visto nel mio precedente post sui libri della biblioteca) e Frankenstein di Mary Shelley. In verità, ho cominciato pure Piccole Donne perché è un periodo già abbastanza angosciante senza libri che mettono paura e, quella della Alcott, è una lettura che mi mette una serenità unica. Una camomilla di carta e inchiostro! Ma adesso torniamo a parlare di morte.

“Stringiamoci più stretti a ciò che ci rimane e spostiamo il nostro amore per coloro che abbiamo perduto, su quelli che ancora sono vivi.”

Scrive Mary Shelley in Frankenstein. Ed effettivamente nel romanzo leggiamo delle vicende di Victor che vuole a tutti i costi avere il potere di far rivivere i morti e, utilizzando dei cadaveri, restituisce la vita a un essere nuovo. Una creatura che però crea problemi molto rilevanti intorno a sé e allo stesso Victor. Sarebbe forse meglio rassegnarsi alla morte e all’impossibilità di un ritorno da essa?

Eppure, c’è un luogo in cui i morti ritornano ma portando con loro non disgrazie ma gioia. Dove? In Sicilia! Infatti, oggi è un giorno festivo sul calendario di noi isolani. Il 2 novembre è per noi la festa dei morti! Che cosa? Si tratta di una ricorrenza per celebrare i parenti defunti. Sembra una cosa inquietante, lo so. Invece è un periodo dell’anno che ho sempre amato moltissimo! La tradizione vuole che nella notte tra l’1 e il 2 novembre i defunti facciano visita ai loro cari, lasciando dei doni per i più piccoli, nascondendoli in casa. Quando ero una bambina, quindi, mi svegliavo con la consapevolezza di avere un nuovo giocattolo da scovare da qualche parte! Era un Natale in anticipo ma, invece di un estraneo con la barba bianca, era la mia dolce nonna, nella mia mente di bimba, a portarmi i regali. Un po’ come in Coco, il film di animazione Disney. Anche lì si celebra il dia de los muerto, una festa messicana che dura un po’ più a lungo della nostra ma che prevede il ritorno a casa dei defunti proprio il 2 novembre. Anche nel cartone animato si tratta di un momento di gioia, caratterizzato da colori e costumi allegri.

In Sicilia ci sono anche dei dolci tipici per celebrare la festa. Dalle mie parti si sfornano dei biscotti che si chiamano ossa dei morti, per la loro consistenza capace di far saltare i denti migliori e dei deliziosi biscotti al cioccolato che si chiamano rame di Napoli (ma sto ancora cercando di capire il perché, considerato che le mie numerose amicizie campane non li hanno mai visti).

Dopo aver scartato i regali ed essersi rimpinzati di dolci si va a fare visita alle tombe dei parenti. Mia madre è originaria di un paese distante all’incirca un’oretta dal luogo in cui abitiamo e, quindi, recarsi al cimitero era una vera e propria gita, nonché un momento di raccoglimento per tutta la famiglia (la mia è bella numerosa). Ancora oggi i cimiteri mi rendono quieta invece di farmi paura, e, non a caso, il Monumentale di Milano (di cui ho inserito le foto nel post) è uno dei miei posti preferiti della città che mi ha adottata.

Libri, Scrittori

I libri della biblioteca

Come ormai saprete, vivo in una stanza in affitto, la più piccola delle due camere da letto nel bilocale che condivido con la mia coinquilina. E, di conseguenza, anche la mia libreria è di dimensioni molto ridotte. Questo mi costringe a fare una cernita dei libri che voglio assolutamente tenere con me qui a Milano, di quelli che voglio leggere da un’edizione particolarmente bella, di quelli di cui desidero anche l’edizione inglese perché sono i miei preferiti in assoluto. A settembre, per un ricambio di libri, ho dovuto riempire una valigia con i volumi che avevo già letto e lasciarla ai miei genitori, per ricavare un po’ di spazio. Ma è di nuovo quasi piena!

Le voglie di libri hanno tutta una loro logica e, anche se ne ho ancora diversi da leggere sugli scaffali della mia libreria, non sempre ho sotto mano quello che mi stuzzica l’appetito in quel momento. Come dire, io amo la pasta ma può capitare che una sera abbia voglia di sushi, no? Manca sempre qualche libro che mi incuriosisce in quel preciso istante o di cui sento essere arrivato il momento adatto. Allora ho preso l’abitudine di chiederli in prestito in biblioteca, non avendo più dove metterli. Anzi, se c’è una cosa che non mi fa sentire sola, in questo momento di contagi in risalita in cui tutte le mie amicizie sono al sud, sono proprio i libri della biblioteca. L’idea che lo stesso titolo sia stato scelto e letto da qualcuno prima di me, l’idea di avere qualcosa in comune con qualcuno che non conosco ha un che di rassicurante. Un pezzo di destino diviso con uno sconosciuto. Pensare che il volume abbia visto tante case, tante mani e occhi di proprietari diversi mi fa sperare che esistano tante anime affini alla mia e che ne esisteranno ancora altre dopo che lo avrò riconsegnato. Per non parlare di quando chi lo ha avuto prima di me lascia tra le pagine qualche indizio di sé: un biglietto del cinema o di un museo, un foglio di appunti dell’università, uno scontrino. Piccoli segnalibri che danno il “ciak” a immediati corti mentali.

Adesso sto leggendo Lizzie di Shirley Jackson (perché sono una di quelle banali persone che a fine ottobre deve assolutamente leggere letture a tema) e, mentre stringo la sua copertina blu navy tra le mani, immagino che il precedente proprietario fosse una donna. Una ragazza, in verità. Un’universitaria di ventidue anni, per la precisione. Eccola che prende forma: è longilinea, ha occhi scuri e profondi come tazze di caffè, incorniciati da occhiali tondi, metallici, come si portavano un tempo e come sono tornati in voga oggi. La frangia e un caschetto delimitano un ovale perfettamente simmetrico. Ha un taglio di capelli desiderato da ogni donna, dopo aver visto Mia Wallace danzare in Pulp Fiction, ma che non dona quasi a nessuna (mica siamo tutte Uma Thurman!). A lei però sì, le sta proprio d’incanto. Studia scienze politiche, le interessano i diritti delle donne, è appassionata di film horror degli anni ’80 e adora Stephen King. Prima di Lizzie ha divorato il suo romanzo L’incendiaria e nella prima pagina si è imbattuta nella dedica, che riportava:

A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce.

Si è domandata chi fosse questa donna che non ha mai urlato per farsi notare. Oggi, quasi ogni domanda che si materializza tra i nostri pensieri trova subito una risposta, se vuole davvero trovarla. E così ha digitato questo nome femminile su Google e ha scoperto che è una scrittrice. Un’autrice che ha ispirato il suo beniamino! Come è potuta sfuggirle una King femminile? Come ha potuto essere tenuta così a lungo allo scuro di una Queen? Quindi è stato un attimo (aveva già lo smartphone in mano per la precedente ricerca), è entrata sul sito della biblioteca di Milano, ha letto la trama di Lizzie, le è piaciuta, due copie disponibili e via, una prenotata. Lei non lo ha comprato perché l’odore dei libri nuovi non le piace come quello dei libri vecchi, che hanno quel profumo inspiegabile di vaniglia. Mi piace pensare che lo abbia terminato in due giorni, rimandando lo studio di Diritto internazionale, che tanto la sessione invernale è ancora lontana! E che, in questo venerdì sera, sia raggomitolata accanto al suo ragazzo, su un morbido divano verde, che abbiano ordinato una maxi pizza da dividere in due e che, proprio adesso, stiano cliccando il tasto play sul primo episodio di Hill House su Netflix. Quando finirà la serie prenoterà sicuramente il libro in biblioteca. Se non lo avrò fatto prima io! E allora le toccherà aspettare e magari immaginare sembianze e interessi di chi lo ha avuto in prestito prima di lei.

Libri

Ludmilla e Tereza, due lettrici come noi

In questo momento sto leggendo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino e, quando vado in palestra, ascolto l’audiolibro de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera. Sì, lo so, sono matta a non ascoltare musica durante una sessione di allenamento ma sono stata rapita dalla storia e per ora unisco l’utile (40 minuti di cyclette) al dilettevole (una voce che mi legge un libro). Ho provato anche a portarmi il volume in palestra ma mi guardavano tutti come se venissi da un altro pianeta e, nonostante di solito essere considerata diversa mi lusinghi, in un certo senso, sentirmi osservata mentre sono vulnerabile, sudata, coi capelli legati, struccata e con la maglia sformata di Friends non è esattamente di mio gradimento. L’audiolibro, invece, è più discreto. Agli occhi degli altri sei invisibile, esattamente come tutti: una ragazza che si allena in palestra con un po’ di musica.

Mi reputo fortunata. Sono entrambi libri bellissimi, di quelli che non dimentichi facilmente e non è una cosa che capita spesso. Ci sono libri discreti, piacevoli, che leggerli è gradevole. Ci sono libri che non incontrano minimamente i nostri gusti e che siamo indecisi se lasciare a metà o, spinti dal dovere, non abbandonarli fino all’ultima pagina ma, diciamocelo, a fatica. E poi ci sono libri magnifici, che in ogni frase contengono un segreto o qualcosa che abbiamo sempre pensato anche noi ma non abbiamo mai saputo esprimere così bene come l’autore. Io ho scelto due libri ed ho avuto la fortuna che entrambi fossero splendidi. Sì, ok, direte voi, ma parliamo di Calvino e Kundera mica di “un mattone polacco, minimalista di scrittore morto suicida giovanissimo, copie vendute: 2” (cit). Avete ragione anche voi ma i gusti sono gusti e potevano pure non incontrare i miei. Inoltre, mi piace pensare che mi siano capitati perché meritavo non una ma ben due cose belle.

Un’altra caratteristica che hanno in comune i due libri scelti è che contengono la figura della lettrice che in Calvino è fondamentalmente il tema principale del romanzo e risiede nella figura di Ludmilla, e in Kundera è accennata, tra le varie caratteristiche di Tereza. Entrambe le descrizioni, mentre leggevo, le ho calzate alla perfezione, come un abito della mia misura e sono sicura che moltissime lettrici si troveranno altrettanto a loro agio in questi confortevoli panni.

Il suo stato di estraneo lo elevava al di sopra degli altri. E qualcos’altro lo elevava: teneva sul tavolo un libro aperto. In quel bar nessuno aveva mai aperto un libro sul tavolo. Un libro era per Tereza il segno di riconoscimento di una fratellanza segreta. Contro il mondo della volgarità che la circondava, essa aveva infatti un’unica difesa: i libri che prendeva in prestito alla biblioteca comunale; soprattutto i romanzi: ne aveva letti un’infinità, da Fielding a Thomas Mann. Le offrivano la possibilità di una fuga immaginaria da quella vita che non le dava alcuna soddisfazione, ma avevano significato per lei anche in quanto oggetti: le piaceva passeggiare per strada con dei libri sotto il braccio. Essi rappresentavano per lei ciò che il bastone da passeggio rappresentava per un dandy del secolo scorso. La distinguevano dagli altri. (Il paragone tra il libro e il bastone da passeggio del dandy non è del tutto preciso. Il bastone non serviva soltanto a distinguere il dandy, lo rendeva anche moderno e alla moda. Il libro distingueva Tereza, ma la rendeva antiquata. Naturalmente, lei era troppo giovane per potersi accorgere della sua aria antiquata. I giovani che le passavano accanto con le loro rumorose radioline le sembravano stupidi. Non si accorgeva che erano moderni). L’uomo che le rivolse la parola era quindi, allo stesso tempo, un estraneo e il membro di una confraternita segreta. Le parlò con voce gentile e Tereza sentì la propria anima precipitarsi alla superficie attraverso tutte le vene, tutti i capillari e tutti i pori, per mostrarsi a lui.

A me piace leggere, leggere davvero… – È Ludmilla che parla così, con convinzione e calore. È seduta di fronte al professore, vestita in modo semplice ed elegante, di colori chiari. Il suo modo di stare al mondo, piena d’interesse per ciò che il mondo può darle, allontana l’abisso egocentrico del romanzo suicida che finisce per sprofondare dentro se stesso. Nella sua voce, cerchi la conferma del tuo bisogno d’attaccarti alle cose che ci sono, di leggere quel che c’è scritto e basta, allontanando i fantasmi che sfuggon tra le mani. (…) Ma Ludmilla è sempre d’un passo almeno più avanti di te. – Mi piace sapere che esistono libri che potrò ancora leggere…- dice sicura che alla forza del suo desiderio devono corrispondere oggetti esistenti, concreti, anche se sconosciuti. Come potrai tenerle dietro, a questa donna che legge sempre un altro libro, in più di quello che ha sotto gli occhi, un libro che non c’è ancora ma che, dato che lei lo vuole, non potrà non esserci?

Che ne pensate? Voi conoscete altri libri in cui la figura della lettrice (o del lettore) è descritta in maniera così calzante?

Tutte le illustrazioni del post sono opera della splendida Henn Kim.

Libri, Scrittori

Calvino lo sapeva già nel 1955

Vi capita mai di sentirvi schiavi dei social? Di controllare spasmodicamente chi vi guarda le stories su Instagram (come se a chi lo fa importi davvero di voi), di sentirvi quasi obbligati a fotografare quello che mangiate se è particolarmente appetitoso e di condividerlo su Instagram? Che poi condividere cosa? Parliamoci chiaro, questa non è condivisione. Condivisione è la parola più sbagliata per questa pratica. Io la chiamerei esclusione. Perché sì, è un voler escludere l’altro, non di certo includerlo. Mettere una foto che potrebbe benissimo avere come didascalia: “Io sono in questa spiaggia bellissima a sorseggiare un cocktail da una noce di cocco e tu sei in ufficio a lavorare” non è condividere ma vantarsi, ostentare, lasciare fuori, millantare, estromettere, emarginare. Vi capita anche di divertirvi molto e non postare proprio nulla sui social? Eh, appunto.

Sono una grande fan della fotografia e credo che la macchina fotografica sia una scatola magica che cattura istanti e intrappola il tempo. Quanto è bello riguardare dei ricordi di tre, cinque, dieci anni fa? Nel 2020 giro ancora con una macchina fotografica analogica perché credo che centellinare i momenti più significativi, cercando di guardare il più possibile con i miei occhi e non attraverso un obiettivo, sia importante. Eppure sui social mi comporto esattamente come tutti gli altri e non so voi ma mi sento proprio schiava di questo stile di vita così superficiale. A volte penso che i contro superino i pro e che disintossicarci da tutta questa condivisione/esclusione farebbe un po’ bene a tutti. Magari una volta al mese potremmo provare a non entrare proprio sui social per, non so, una settimana? Questa estate io l’ho fatto per qualche giorno dopo aver letto Gli amori difficili, una raccolta di racconti che ho amato (come qualsiasi cosa scritta da Calvino).

Vi lascio con la citazione che mi ha fatto questo effetto, lo sperimento qui come vaccino a uno dei mali del nostro secolo.

Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata è brevissimo. (…) Basta che cominciate a dire qualcosa: “Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!” e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse mai esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia.

Libri, Scrittori

Una stanza tutta per me

È più di un mese che non scrivo sul blog. Non ho smesso di leggere, solo di parlare dei libri che leggo. L’ultimo mese a casa è stato piuttosto intenso: sono venute a trovarmi due amiche e abbiamo girato un po’ la mia splendida isola, ho cercato di stare il più possibile con la mia famiglia e catturare e trattenere nella mia mente più istanti, odori, immagini possibili di chi amo e non vedrò nei prossimi mesi.

Ho cominciato anche un nuovo progettino al quale tengo molto e che mi porta via un po’ di tempo durante il giorno (non essere geloso, blog). Si tratta di una pagina su Instagram che si chiama storiadellartealfemminile e raccoglie le testimonianze delle opere d’arte delle donne che spesso non hanno ricevuto la dovuta attenzione, né sono state inserite all’interno dei libri di storia dell’arte. Per ora è solo un profilo su Instagram che, con un po’ di fantasia, finge di essere un manuale d’arte, con pochi followers per di più. Ma un giorno, quando avrò abbastanza materiale, vorrei scrivere davvero un libro di Storia dell’arte al femminile. Mi fa stare bene far scoprire e scovare io stessa opere e storie di donne meravigliose, ignorate dai più. Per citare Virginia:

Quando leggo di una strega gettata nel fiume, di una donna posseduta dai diavoli, di una levatrice esperta di erbe, o perfino dell’esistenza della madre di qualche uomo notevole, penso che siamo sulle tracce di un romanziere perduto, di un poeta costretto al silenzio, di qualche muta e ingloriosa Jane Austen, di qualche Emily Brontë che si sarà fracassata il cervello fra le brughiere, oppure avrà vagato gemendo per le strade, resa pazza dalla tortura inflittale dal proprio talento. Infatti sarei capace di scommettere che Anonimo, il quale scrisse tante poesie senza firmarle, spesso era una donna.

Mi sa che qualche capitoletto, quando comincerò a scriverlo, lo pubblicherò pure qui, solo per fargli prendere una forma più testuale che visiva, in uno spazio che mi mette a mio agio con le parole.

Ma torniamo al post di oggi, al mio rientro a Milano. Avevo molta paura di tornare qui. L’ultimo periodo vissuto tra le mura di questa casa risaliva al pieno lockdown e, in un certo senso, è stato abbastanza traumatico. Pur avendo vissuto cinque anni a Milano, non riuscivo a non collegare questa città a quei tre mesi di quarantena. Chi mi ha aiutata a capire che dovevo tornare qui, dove ho studiato e sto tentando di costruirmi un futuro? Sicuramente non sarò un’eccellente scrittrice di gialli e voi lo avrete ormai capito da titolo, foto e citazione: Virginia Woolf.

Sono convinta che i libri abbiano degli invisibili piedini che li portano da noi al momento giusto. Nell’esatto istante in cui abbiamo bisogno di loro. Non so se siate d’accordo, non so se vi sia mai capitato di pensarlo ma a me succede di continuo. Magari ho un libro da anni, non lo leggo perché mi capita di dare precedenza ad altro e poi, un giorno, decido di iniziarlo e mi sento compresa come da un amico, quasi spiata, in verità! Sembra che capisca perfettamente il periodo che sto vivendo. Oppure accadono delle coincidenze sorprendenti che mi fanno sorridere e pensare che questi oggetti di carta e inchiostro abbiano anche una sorta di anima al loro interno, magari quella dei loro autori. Un esempio che mi viene in mente: lo scorso inverno mi sono tuffata nella letteratura russa, scoprendo di amarla moltissimo. Ho iniziato ad appassionarmene leggendo autori in ordine casuale e ricordo che una sera ero molto stanca dopo le lezioni ed ero indecisa se cominciare La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj o se farlo il giorno dopo. Alla fine ho preso il libro in mano e ho deciso di cominciare a leggerlo per conciliare il sonno. Era il 3 febbraio e alla prima pagina, sest’ultima riga, il libro diceva che Ivan Il’ic si era spento il 3 febbraio del 1882. Un anno è composto da 365 giorni e io avevo deciso di leggere della morte di Ivan Il’ic esattamente nel giorno della sua ricorrenza. Un brivido mi ha scossa, seguito da un sorriso: sono proprio magici i libri.

Un mese fa, molto malinconica all’idea di tornare al Nord, un po’ per caso, un po’ per questa vena femminista che la mia nuova pagina mi fa pulsare dentro, ho preso dalla mia libreria due volumi brevi per un altrettanto breve viaggio in treno: Il ballo di Irène Némirovsky e Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf. A Virginia, che nel saggio tratta le donne e il romanzo, esaltando il talento del genere femminile messo a tacere e ostacolato per troppo tempo, è bastato un viaggio in treno e una frase per farmi capire quanto in realtà mi mancasse questa città, quanto avessi bisogno della mia indipendenza che mi caratterizza da cinque anni.

Se ha intenzione di scrivere romanzi, una donna deve possedere denaro e una stanza tutta per sé.

Che il denaro muova il mondo, purtroppo, lo sappiamo tutti. È poco poetico ma è così (fatevelo dire da chi non vede stipendio da giugno, causa covid). Ma quanto è vero che una donna non abbia bisogno di altro, se non di una stanza? Quattro mura da rendere proprie con le cose che ama, un fazzoletto di mondo che sia solo suo. Quanto mi è mancato questo spazio, questo angolo di privacy, questo piccolo contenitore di libri, vinili e piante dove riesco a fare tutto quello che mi piace. Torno nel mio minuscolo pianeta e ricomincio a scrivere.

Già che siamo in tema: i due ritratti di Virginia che ho inserito in questo post sono stati dipinti dalla sorella, Vanessa Bell, che era una talentuosa pittrice! Lo sapevate?