Libri, Scrittori

I libri della biblioteca

Come ormai saprete, vivo in una stanza in affitto, la più piccola delle due camere da letto nel bilocale che condivido con la mia coinquilina. E, di conseguenza, anche la mia libreria è di dimensioni molto ridotte. Questo mi costringe a fare una cernita dei libri che voglio assolutamente tenere con me qui a Milano, di quelli che voglio leggere da un’edizione particolarmente bella, di quelli di cui desidero anche l’edizione inglese perché sono i miei preferiti in assoluto. A settembre, per un ricambio di libri, ho dovuto riempire una valigia con i volumi che avevo già letto e lasciarla ai miei genitori, per ricavare un po’ di spazio. Ma è di nuovo quasi piena!

Le voglie di libri hanno tutta una loro logica e, anche se ne ho ancora diversi da leggere sugli scaffali della mia libreria, non sempre ho sotto mano quello che mi stuzzica l’appetito in quel momento. Come dire, io amo la pasta ma può capitare che una sera abbia voglia di sushi, no? Manca sempre qualche libro che mi incuriosisce in quel preciso istante o di cui sento essere arrivato il momento adatto. Allora ho preso l’abitudine di chiederli in prestito in biblioteca, non avendo più dove metterli. Anzi, se c’è una cosa che non mi fa sentire sola, in questo momento di contagi in risalita in cui tutte le mie amicizie sono al sud, sono proprio i libri della biblioteca. L’idea che lo stesso titolo sia stato scelto e letto da qualcuno prima di me, l’idea di avere qualcosa in comune con qualcuno che non conosco ha un che di rassicurante. Un pezzo di destino diviso con uno sconosciuto. Pensare che il volume abbia visto tante case, tante mani e occhi di proprietari diversi mi fa sperare che esistano tante anime affini alla mia e che ne esisteranno ancora altre dopo che lo avrò riconsegnato. Per non parlare di quando chi lo ha avuto prima di me lascia tra le pagine qualche indizio di sé: un biglietto del cinema o di un museo, un foglio di appunti dell’università, uno scontrino. Piccoli segnalibri che danno il “ciak” a immediati corti mentali.

Adesso sto leggendo Lizzie di Shirley Jackson (perché sono una di quelle banali persone che a fine ottobre deve assolutamente leggere letture a tema) e, mentre stringo la sua copertina blu navy tra le mani, immagino che il precedente proprietario fosse una donna. Una ragazza, in verità. Un’universitaria di ventidue anni, per la precisione. Eccola che prende forma: è longilinea, ha occhi scuri e profondi come tazze di caffè, incorniciati da occhiali tondi, metallici, come si portavano un tempo e come sono tornati in voga oggi. La frangia e un caschetto delimitano un ovale perfettamente simmetrico. Ha un taglio di capelli desiderato da ogni donna, dopo aver visto Mia Wallace danzare in Pulp Fiction, ma che non dona quasi a nessuna (mica siamo tutte Uma Thurman!). A lei però sì, le sta proprio d’incanto. Studia scienze politiche, le interessano i diritti delle donne, è appassionata di film horror degli anni ’80 e adora Stephen King. Prima di Lizzie ha divorato il suo romanzo L’incendiaria e nella prima pagina si è imbattuta nella dedica, che riportava:

A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce.

Si è domandata chi fosse questa donna che non ha mai urlato per farsi notare. Oggi, quasi ogni domanda che si materializza tra i nostri pensieri trova subito una risposta, se vuole davvero trovarla. E così ha digitato questo nome femminile su Google e ha scoperto che è una scrittrice. Un’autrice che ha ispirato il suo beniamino! Come è potuta sfuggirle una King femminile? Come ha potuto essere tenuta così a lungo allo scuro di una Queen? Quindi è stato un attimo (aveva già lo smartphone in mano per la precedente ricerca), è entrata sul sito della biblioteca di Milano, ha letto la trama di Lizzie, le è piaciuta, due copie disponibili e via, una prenotata. Lei non lo ha comprato perché l’odore dei libri nuovi non le piace come quello dei libri vecchi, che hanno quel profumo inspiegabile di vaniglia. Mi piace pensare che lo abbia terminato in due giorni, rimandando lo studio di Diritto internazionale, che tanto la sessione invernale è ancora lontana! E che, in questo venerdì sera, sia raggomitolata accanto al suo ragazzo, su un morbido divano verde, che abbiano ordinato una maxi pizza da dividere in due e che, proprio adesso, stiano cliccando il tasto play sul primo episodio di Hill House su Netflix. Quando finirà la serie prenoterà sicuramente il libro in biblioteca. Se non lo avrò fatto prima io! E allora le toccherà aspettare e magari immaginare sembianze e interessi di chi lo ha avuto in prestito prima di lei.

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Libri

Ludmilla e Tereza, due lettrici come noi

In questo momento sto leggendo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino e, quando vado in palestra, ascolto l’audiolibro de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera. Sì, lo so, sono matta a non ascoltare musica durante una sessione di allenamento ma sono stata rapita dalla storia e per ora unisco l’utile (40 minuti di cyclette) al dilettevole (una voce che mi legge un libro). Ho provato anche a portarmi il volume in palestra ma mi guardavano tutti come se venissi da un altro pianeta e, nonostante di solito essere considerata diversa mi lusinghi, in un certo senso, sentirmi osservata mentre sono vulnerabile, sudata, coi capelli legati, struccata e con la maglia sformata di Friends non è esattamente di mio gradimento. L’audiolibro, invece, è più discreto. Agli occhi degli altri sei invisibile, esattamente come tutti: una ragazza che si allena in palestra con un po’ di musica.

Mi reputo fortunata. Sono entrambi libri bellissimi, di quelli che non dimentichi facilmente e non è una cosa che capita spesso. Ci sono libri discreti, piacevoli, che leggerli è gradevole. Ci sono libri che non incontrano minimamente i nostri gusti e che siamo indecisi se lasciare a metà o, spinti dal dovere, non abbandonarli fino all’ultima pagina ma, diciamocelo, a fatica. E poi ci sono libri magnifici, che in ogni frase contengono un segreto o qualcosa che abbiamo sempre pensato anche noi ma non abbiamo mai saputo esprimere così bene come l’autore. Io ho scelto due libri ed ho avuto la fortuna che entrambi fossero splendidi. Sì, ok, direte voi, ma parliamo di Calvino e Kundera mica di “un mattone polacco, minimalista di scrittore morto suicida giovanissimo, copie vendute: 2” (cit). Avete ragione anche voi ma i gusti sono gusti e potevano pure non incontrare i miei. Inoltre, mi piace pensare che mi siano capitati perché meritavo non una ma ben due cose belle.

Un’altra caratteristica che hanno in comune i due libri scelti è che contengono la figura della lettrice che in Calvino è fondamentalmente il tema principale del romanzo e risiede nella figura di Ludmilla, e in Kundera è accennata, tra le varie caratteristiche di Tereza. Entrambe le descrizioni, mentre leggevo, le ho calzate alla perfezione, come un abito della mia misura e sono sicura che moltissime lettrici si troveranno altrettanto a loro agio in questi confortevoli panni.

Il suo stato di estraneo lo elevava al di sopra degli altri. E qualcos’altro lo elevava: teneva sul tavolo un libro aperto. In quel bar nessuno aveva mai aperto un libro sul tavolo. Un libro era per Tereza il segno di riconoscimento di una fratellanza segreta. Contro il mondo della volgarità che la circondava, essa aveva infatti un’unica difesa: i libri che prendeva in prestito alla biblioteca comunale; soprattutto i romanzi: ne aveva letti un’infinità, da Fielding a Thomas Mann. Le offrivano la possibilità di una fuga immaginaria da quella vita che non le dava alcuna soddisfazione, ma avevano significato per lei anche in quanto oggetti: le piaceva passeggiare per strada con dei libri sotto il braccio. Essi rappresentavano per lei ciò che il bastone da passeggio rappresentava per un dandy del secolo scorso. La distinguevano dagli altri. (Il paragone tra il libro e il bastone da passeggio del dandy non è del tutto preciso. Il bastone non serviva soltanto a distinguere il dandy, lo rendeva anche moderno e alla moda. Il libro distingueva Tereza, ma la rendeva antiquata. Naturalmente, lei era troppo giovane per potersi accorgere della sua aria antiquata. I giovani che le passavano accanto con le loro rumorose radioline le sembravano stupidi. Non si accorgeva che erano moderni). L’uomo che le rivolse la parola era quindi, allo stesso tempo, un estraneo e il membro di una confraternita segreta. Le parlò con voce gentile e Tereza sentì la propria anima precipitarsi alla superficie attraverso tutte le vene, tutti i capillari e tutti i pori, per mostrarsi a lui.

A me piace leggere, leggere davvero… – È Ludmilla che parla così, con convinzione e calore. È seduta di fronte al professore, vestita in modo semplice ed elegante, di colori chiari. Il suo modo di stare al mondo, piena d’interesse per ciò che il mondo può darle, allontana l’abisso egocentrico del romanzo suicida che finisce per sprofondare dentro se stesso. Nella sua voce, cerchi la conferma del tuo bisogno d’attaccarti alle cose che ci sono, di leggere quel che c’è scritto e basta, allontanando i fantasmi che sfuggon tra le mani. (…) Ma Ludmilla è sempre d’un passo almeno più avanti di te. – Mi piace sapere che esistono libri che potrò ancora leggere…- dice sicura che alla forza del suo desiderio devono corrispondere oggetti esistenti, concreti, anche se sconosciuti. Come potrai tenerle dietro, a questa donna che legge sempre un altro libro, in più di quello che ha sotto gli occhi, un libro che non c’è ancora ma che, dato che lei lo vuole, non potrà non esserci?

Che ne pensate? Voi conoscete altri libri in cui la figura della lettrice (o del lettore) è descritta in maniera così calzante?

Tutte le illustrazioni del post sono opera della splendida Henn Kim.

Libri, Scrittori

Calvino lo sapeva già nel 1955

Vi capita mai di sentirvi schiavi dei social? Di controllare spasmodicamente chi vi guarda le stories su Instagram (come se a chi lo fa importi davvero di voi), di sentirvi quasi obbligati a fotografare quello che mangiate se è particolarmente appetitoso e di condividerlo su Instagram? Che poi condividere cosa? Parliamoci chiaro, questa non è condivisione. Condivisione è la parola più sbagliata per questa pratica. Io la chiamerei esclusione. Perché sì, è un voler escludere l’altro, non di certo includerlo. Mettere una foto che potrebbe benissimo avere come didascalia: “Io sono in questa spiaggia bellissima a sorseggiare un cocktail da una noce di cocco e tu sei in ufficio a lavorare” non è condividere ma vantarsi, ostentare, lasciare fuori, millantare, estromettere, emarginare. Vi capita anche di divertirvi molto e non postare proprio nulla sui social? Eh, appunto.

Sono una grande fan della fotografia e credo che la macchina fotografica sia una scatola magica che cattura istanti e intrappola il tempo. Quanto è bello riguardare dei ricordi di tre, cinque, dieci anni fa? Nel 2020 giro ancora con una macchina fotografica analogica perché credo che centellinare i momenti più significativi, cercando di guardare il più possibile con i miei occhi e non attraverso un obiettivo, sia importante. Eppure sui social mi comporto esattamente come tutti gli altri e non so voi ma mi sento proprio schiava di questo stile di vita così superficiale. A volte penso che i contro superino i pro e che disintossicarci da tutta questa condivisione/esclusione farebbe un po’ bene a tutti. Magari una volta al mese potremmo provare a non entrare proprio sui social per, non so, una settimana? Questa estate io l’ho fatto per qualche giorno dopo aver letto Gli amori difficili, una raccolta di racconti che ho amato (come qualsiasi cosa scritta da Calvino).

Vi lascio con la citazione che mi ha fatto questo effetto, lo sperimento qui come vaccino a uno dei mali del nostro secolo.

Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata è brevissimo. (…) Basta che cominciate a dire qualcosa: “Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!” e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse mai esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia.